Un popolo di debitori, il nuovo libro di Miro Renzaglia
Mario Grossi intervista Miro Renzaglia
Il nuovo libro di Miro Renzaglia, Un popolo di debitori (Safarà Editore, 2014 pag. 100, 10 euro), recentemente presentato a Imperia, rompe nuovamente il tabù che vuole l’economia appannaggio dei soliti professoroni accademici, chiusi nelle loro cittadelle e incancreniti nelle loro caste sacerdotali, unici esperti, professionisti della materia. Professionisti che, detto en passant, con tutta la loro scienza, non sono stati capaci mai di fare una previsione attendibile. Il libro fornisce, con uno stile diretto, senza tante curve e distinguo da “cacadubbi”, una piattaforma su un mondo, quello dell’economia, che in troppi considerano alieno, noioso, ostico e fuori dal loro contesto vitale. Che si parli di interessi zero, quelli che ci vengono spacciati per tali, che si parli di consumo, di Bce, della truffa delle agenzie di rating, di capitalismo, di Iri, l’autore, come acutamente viene segnalato nella prefazione di Ivan Buttignon, offre a tutti un testo che, scevro da qualsiasi pregiudizio, non deformato nel suo percorso da nessun torcicollo ideologico e da nessuno scarto teso a recuperare il tracciato da altri delineato, smantella i falsi pregiudizi: “Armato di un gigantesco martello, Miro Renzaglia demolisce una ad una le cornici che condannano la nostra vita a seguire un solo pensiero. Quello unico”.
Sei poeta, ti interessi di economia, ritieni Ezra Pound tuo riferimento. Poesia ed economia sono solo due interessi paralleli o c’è una relazione più stretta tra le due cose?
Per quella che è la mia esperienza personale posso dirti che sono arrivato a interessarmi di economia, in età molto giovanile, attraverso la poesia di Ezra Pound. Incantato dalle immagini dei Cantos – di uno in particolare: “Con Usura” – ho fatto quello che normalmente non faccio con i testi di poesia: ho cercato di capirne il senso. Evidentemente le suggestioni erano talmente forti che mi spingevano oltre il “bello” che quasi sempre mi basta trovare in una poesia. Per esempio, d’acchito afferrai come “Con usura nessuno ha casa di buona pietra” ma proprio non riuscivo a capire come “Soffoca il figlio nel grembo / Frena la corte del giovine amante / Causa paralisi a letto, giacendo / fra giovini sposi / Contra Naturam”. Trovare una risposta non fu facile. Pensai che iscrivermi alla facoltà di economia mi avrebbe aiutato ma non fu così. Lasciata l’università, andai un po’ random, ma sempre con quella freccia direzionale del poema poundiano schiaffato nel cervello, alla cerca autodidatta dei come e dei perché. Il percorso non è stato facile ma, alla fine, ritengo di aver trovato risposte plausibili che ho inteso condividere con i lettori del mio libro.
Dici, a proposito di consumo, che non esiste un complotto per farci consumare sempre di più ma che è il meccanismo che il capitalismo si è dato a costringerci. Se è vero, allora è corretta la profezia di Severino che dice che la Tecnica trasformata in divinità piegherà tutto al suo culto. Se così è, non c’è via d’uscita: il nuovo culto del consumo voluto dalla Tecnica divinizzata ci ha già reso impotenti. C’è via d’uscita?
La tua domanda richiederebbe un altro libro per rispondere compiutamente. Vediamo se ci riesco in una breve sintesi. Produzione e consumo sono fenomeni inscindibili: non è data l’una senza l’altro e viceversa. Con la Rivoluzione Industriale – quindi con l’elevazione della Tecnica a fattore moltiplicatore di merci, beni e servizi – c’è stata un’indubbia crescita della distribuzione del prodotto. La distribuzione dei prodotti si è via via allargata a fasce sempre più ampie di società. Io non considero affatto un male questo sviluppo. Certo, all’inizio, non furono le masse salariate dalla neonata impresa industriale a goderne ma, progressivamente, la distribuzione è diventata – come dire? – sempre più democratica. Fra i tanti effetti positivi che possiamo contare c’è anche qualche effetto nefasto: penso soprattutto all’inquinamento del pianeta come risultato del diffondersi globale delle industrie e delle loro scorie e delle scorie del consumo. Ma per dimostrarti gli effetti positivi, mi basta recitartene uno: l’età media della vita umana, che agli arbori della Rivoluzione Industriale, nel 1700, era di 40 anni, si è elevata oggi a quasi il doppio. Ti sembra poco?
Non sei contrario al consumo ma parli di consumo responsabile. Sta alla persona gestire il proprio consumo. Ha ragione Serge Latouche quando dice che bisogna decolonizzare il nostro immaginario? Cosa pensi della decrescita felice?
No, guarda: già dalla risposta alla domanda precedente dovresti aver capito che non credo ci sia alcuna felicità nella decrescita. Anzi, in assoluto non credo proprio che la decrescita possa creare felicità. Chi la predica usa argomenti molto convincenti e persuasivi ma si dimentica di riportare una nozione incontrovertibile: mai, in nessuna epoca storica, l’umanità ha smesso di crescere se non per effetto di immani cataclismi naturali: penso alla peste del Medioevo, per esempio che arrestò o frenò per qualche secolo l’innato istinto dell’uomo a continuare a crescere. Da questo punto di vista, penso che la decrescita sia un atto contro natura. Piuttosto che di decrescita, preferirei parlare di razionalizzazione dei meccanismi di produzione e di consumo. Per questo ho parlato di consumo responsabile.
Sempre sul consumo responsabile. Esiste una pubblicità asfissiante che ci costringe subliminalmente al consumo; lo Stato definisce bravo cittadino il consumatore (vedi le pubblicità progresso di Berlusconi e le leggi che penalizzano il piccolo risparmio di Renzi), l’industria applica l’obsolescenza programmata dei prodotti in maniera massiccia. Come si fa ad essere dei consumatori responsabili quando chi non consuma è visto come un eversore, un ribelle, un nemico della Patria?
Partiamo da un presupposto lapalissiano: è impossibile non consumare. Sarebbe impossibile anche là dove uno stato “etico”, o autoritario se preferisci, abolisse o limitasse ai minimi termini la pubblicità commerciale che ci martella dalla mattina alla sera. Sono stato a Cuba, una decina di anno fa, e lì la pubblicità commerciale era abolita per legge. Pensi che per questo i cubani avessero smesso di consumare o di desiderare un consumo maggiore? Manco per niente. Tu consumi già da quando ti alzi dal letto la schiuma da barba, il sapone per la doccia, il caffè della colazione, le scarpe per arrivare alla tua auto, la benzina che ti porterà al lavoro, il cibo del pranzo di mezzogiorno, l’energia per usare il tuo pc e quella che usi per accendere la televisione per goderti, dopo aver consumato una buona cena, il film comodamente disteso sul divano di casa tua che nel frattempo si consuma a sua volta. La pubblicità – è vero – sollecita il desiderio. Ma se ciò che desideri rimane dentro la spesa che il tuo reddito ti consente, dov’è il problema? In questo caso io parlo – ripeto – di “consumo responsabile”. Il problema sorge quando, per acquistare l’oggetto del tuo desiderio, sfori dal reddito e ti indebiti. E’ per questo che ho aperto il mio libro con il capitolo “Interesse Zero”, dove credo di aver spiegato in maniera sufficientemente chiara dov’è il trucco e a quali conseguenze conduce. Chi limita i suoi consumi al proprio reddito non è un nemico della patria. In assoluto non lo è nemmeno chi consuma oltre il suo reddito ma è chiaro che o prima o poi gli verrà presentato un conto assai salato da pagare e non parlo solo in stricto sensu economico. Il vero nemico della patria è l’accumulatore di capitale finanziario che non investe in attività produttive preferendo speculare in borsa.
Se il debito pubblico si vince con un’inflazione programmata ma che mina il piccolo risparmiatore, perché il piccolo risparmiatore dovrebbe piegarsi a questa spirale inflattiva?
Perché a furia di strette creditizie siamo arrivati al fenomeno inverso dell’inflazione: la deflazione. A differenza dell’inflazione che li fa crescere, la deflazione fa scendere i prezzi, è vero: peccato, però, che non ci sia in circolazione moneta sufficiente per approfittare del ribasso. A questo punto le soluzioni sono due: o ti indebiti per acquistare i generi al consumo – e siamo arrivati a indebitarci anche solo per acquistare i generi di prima necessità per arrivare alla fine del mese – o riduci i consumi mandando le imprese produttive e l’intero sistema economico in recessione. Esattamente quello che sta accadendo. Nel 2014, al culmine di una politica monetaria condotta dalla Banca Centrale Europea che aveva come unico obiettivo quello di controllare l’inflazione, siamo andati in deflazione. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: a partire da una disoccupazione ai vertici storici.
Parli dell’Iri e del buon lavoro che ha svolto con Beneduce e negli anni successivi. Sei favorevole a un suo ritorno. Alla luce di quello che diventò nei suoi ultimi anni e alla luce del livello di moralità medio dei politici di oggi non pensi che un ritorno dell’Iri non si traduca in un nuovo dramma clientelare?
Se mi passi la citazione, risponderò con le parole di Ezra Pound: “Nessun sistema funziona se gli uomini che devono farlo funzionare non sono onesti”. L’Iri funzionò nell’immediato della sua creazione, come risposta positiva d’intervento dello stato in economia a una crisi molto simile a quella attuale e funzionò ancora un paio di decenni dopo la fine del governo che lo aveva “inventato”. Tanto da essere stato volano del cosiddetto “boom economico” o “miracolo economico” italiano fra la fine degli anni 50 e primi anni 60 del secolo scorso. Poi, è diventato il mostro clientelare che i più ricordano e, infine, è stato smantellato svendendo per due lire le imprese che ne facevano parte. Traine tu le conclusioni. Una postilla: ripetere pedissequamente gli esperimenti del passato non è un viatico di buona riuscita. Dalla sua nascita, che avenne nel 1933, a oggi sono passati quasi 100 anni. Le dinamiche economiche sono profondamente diverse. Resta valido il principio teorizzato da John Maynard Keynes: lo stato deve investire nell’economia produttiva quando, per un motivo o per l’altro, i privati non riescono più a farlo.