La scrittura senza frontiere

 

 Non è vero che in Italia non ci sia più un bacino artistico letterario. E’ vero, purtroppo, che sempre in pochi prediligano il libro rispetto alla visione di dvd e partite di calcio, ma è altrettanto vero che la cultura è viva e vegeta e pulsa sempre più che mai. Esiste infatti una rivista che unisce scrittori, pensatori, poeti che narrano di come vedono l’Italia di oggi, di come sentono il Mondo, in maniera pulita, chiara e diretta e cercano di analizzare attraverso la scrittura l’animo umano.

Stiamo parlando della Nuova Rivista Letteraria e per entrare nel vivo della questione abbiamo intervistato tre dei suoi redattori:Giuseppe Ciarallo, Paolo Vachino, Alberto Sebastiani.

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 Nuova Rivista Letteraria, come nasce e qual è il confine tra buona e cattiva letteratura?

 Giuseppe Ciarallo: Nuova Rivista Letteraria, originariamente Letteraria, nasce da un’intuizione e su iniziativa di Stefano Tassinari, scrittore, poeta, intellettuale, instancabile agitatore culturale, scomparso prematuramente nel maggio del 2012. L’intenzione di Stefano era quella di riunire, intorno al progetto di una nuova rivista letterariamente militante, tutti i suoi amici scrittori, poeti, critici, intellettuali.

 La riunione fondativa della rivista si tenne il 20 settembre del 2008, presso una saletta del Bar La Linea di Bologna. Oltre a Stefano, e al sottoscritto, c’erano scrittori che avevo incontrato solo attraverso le pagine dei loro libri (Bruno Arpaia, Milena Magnani, Maria Rosa Cutrufelli, Wu Ming 1) e altri che avrei imparato a conoscere come straordinari compagni di viaggio (Massimo Vaggi, Paolo Vachino, Silvia Albertazzi, Alberto Sebastiani). Del collettivo redazionale originario facevano parte, oltre ai citati, Renzo Casali, Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Pino Cacucci, Guido Barbujani, Simona Vinci, Marcello Fois e molti altri scrittori di primo piano del panorama letterario contemporaneo.

Stefano espose molto chiaramente il suo progetto di rivista che, nelle nostre intenzioni doveva irrompere nell’asfittico panorama culturale italiano e riavviare una discussione seria sui grandi temi, una volta ossatura del dibattito interno alla sinistra (il lavoro, la giustizia sociale, pubblico e privato, i movimenti antagonisti) e che da troppo tempo oramai erano stati relegati in soffitta. Questa irruzione culturale sarebbe dovuta avvenire attraverso il ritorno a una dimensione collettiva, dopo l’ubriacatura di narcisistico egotismo esploso nei deleteri anni ’80, che non aveva certo risparmiato ampi settori dell’intellettualità di sinistra, e che pareva non voler più farsi da parte.

 

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Quali sono i temi che la Rivista privilegia?

 G. C. : Letteraria ebbe fin dal primo numero un taglio preciso, immediatamente identificabile, e che decidemmo di riassumere nel sottotitolo, rivista semestrale di letteratura sociale: “di letteratura” perché sarebbe stata fatta da scrittori e avrebbe raccontato di come la letteratura aveva interpretato in passato e stava affrontando nel presente, le tematiche che avremmo deciso di toccare; “sociale” perché noi tutti eravamo intenzionati a riscoprire percorsi che non fossero quelli individuali degli anni appena trascorsi e sentivamo l’urgenza di mettere nuovamente sul tavolo della discussione importanti elementi quali Storia e memoria, conflitto e lavoro, attualità e cambiamenti di costume nella società contemporanea. Tutto ciò venne egregiamente raccontato da Stefano nell’editoriale del numero 1, dall’esplicativo titolo Cercando un altro noi…: “[…] Come risulta evidente dalla scelta dei temi, non abbiamo alcuna intenzione di dare un taglio accademico alla rivista, puntando invece, a rivolgerci al pubblico (relativamente vasto) dei cosiddetti lettori forti, nonché a quelle persone magari più interessate al dibattito politico interno a una sinistra frantumata (e tuttora incapace di esprimere un vero progetto di trasformazione sociale e di superamento – da sinistra, appunto, della crisi economica), ma non per questo insensibili agli stimoli che possono arrivare da chi ha scelto la letteratura come principale mondo espressivo, da vivere anche in modo militante, come si diceva un tempo. […]”.

 Nel corso dei vari numeri (i primi due pubblicati da Editori Riuniti, dal terzo in poi editi da Alegre), siamo oramai alla sedicesima uscita, fedeli ai propositi iniziali ci siamo occupati di razzismo, di lavoro, di cultura, di populismi, di scuola, di famiglia, di cibo, di grandi opere, di revanscismo nazionalista, di utopie e distopie, di lingua e linguaggi, senza dimenticare il numero monografico interamente dedicato al nostro compagno e amico Stefano Tassinari, pubblicato subito dopo la sua scomparsa.

Distopie. Cosa vuol dire scrivere oggi ed è ancora possibile e pensabile il capolavoro letterario? Se oggi nascesse un nuovo Nabokov, avrebbe possibilità di emergere oppure sarebbe sconfitto in partenza? Un autore emergente cosa può fare per avere un minimo di visibilità, in un mondo in cui tutti vogliono essere visibili?

Paolo Vachino e Giuseppe Ciarallo

Paolo Vachino e Giuseppe Ciarallo

 

G.C. : In una società nella quale si tende sempre più a sottrarre strumenti culturali e ad annichilire la capacità critica di intere generazioni, pensare – e per chi sa farlo – scrivere, non deve essere una possibilità ma un obbligo e un impegno morale. Io credo che ogni epoca abbia prodotto i suoi capolavori, certo che se valutiamo un’opera con parametri superati rispetto al momento in cui viene prodotta, rischiamo di non riconoscere il suo vero valore. Non gioca a nostro favore il fatto che il Mercato tenda a spacciare per autentico capolavoro e evento epocale anche la più ignobile avventura editoriale, inflazionando di termini impropri le già anestetizzate capacità di giudizio dei più. Mi chiedo: ma se ogni libro pubblicato (e la cosa vale anche per la musica) viene ossessivamente pubblicizzato come un “capolavoro”, quando uscirà un vero capolavoro che termine dovremo utilizzare? E soprattutto, sapremo riconoscerlo nel mare magnum di fuffa che ci viene propinato? Per quanto riguarda la domanda sulla visibilità di un autore emergente… d’acchito mi viene da rispondere che il mezzo più veloce per mettersi in mostra è rappresentato dai social media. Ma parlo di cose che conosco poco. Quando ho cominciato a scrivere io non c’era neanche il computer, e si facevano le fotocopie dei dattiloscritti mandando in busta agli editori risme di carta che normalmente non venivano letti e finivano direttamente nei cestini. Con l’e-mail è tutto più semplice ed economico…

 Il progresso informatico condiziona in modo sempre più invasivo la vita dell’uomo del nostro tempo e la cultura è relegata in ambiti sempre più ristretti. Sarà la poesia a salvare il mondo oppure oggi conta solo la tecnologia?

 Paolo Vachino: “Oggi conta solo la tecnologia” è un’affermazione valida – in particolar modo – per l’Occidente; altre culture non sono ancora pervenute al nostro livello d’intossicazione tecnologica. Non so se la poesia salverà il mondo ma di certo non sarà la tecnologia a condizionare la sua misteriosa e inesauribile energia. Anche perché la technè è pur sempre un’arte: la capacità di generare e di produrre. Proprio come la poesia, la poiesis, creare qualcosa che prima non c’era. La poesia non è quindi solo la composizione di versi. Anzi, quelli semmai giungono alla fine di un processo che non necessariamente ha come destino la parola. “La poesia è vita che rimane impigliata in una trama di parole” è la sua più bella definizione; è di Sebastiano Vassalli, che era uno scrittore ma non un poeta (e questo la dice lunga). Poesia e tecnologia hanno, quindi, due direzioni contrarie. La tecnologia è un’energia che condiziona l’uomo dall’esterno, mentre la poesia sgorga dall’interiorità e fuoriesce spontaneamente, esonda, straripa in quelle che ancora oggi possiamo chiamare relazioni d’amore e d’amicizia. La poesia forse non salverà il mondo, ma sicuramente metterà in salvo chi la incontra e chi la pratica. La poesia è l’antidoto più potente in dotazione all’uomo contro la morte. Per questo non si estinguerà finché ci saranno morti e morte. Questo oggi pare conti poco, ma intanto può bastare.

 Ballard, Burroughs, Orwell, Bradbury, Dick, Huxley, ancora prima H.G. Wells, possono ormai essere considerati al giorno d’oggi dei realisti, dei veristi, dei naturalisti. Infatti quello che era distopia per loro forse oggi l’amara realtà. Dove andremo a finire? Cosa può fare la letteratura di oggi e cosa sta facendo per capire e prevedere la realtà?

 Alberto Sebastiani: Non credo siano utili le etichette di realisti o addirittura di veristi per questi scrittori, molto diversi tra di loro, e protagonisti di stagioni e fasi diverse della fantascienza. E’ difficile accomunarli e raccontano distopie diverse, quando ne raccontano. Proprio per questo dobbiamo stare attenti a considerarli, come certuni fanno, addirittura “profetici”, anche se oggi viviamo situazioni che possono ricordarci passaggi o interi racconti o romanzi di quegli autori. Direi piuttosto che spesso nei loro testi si riscontrano inquietudini relative alle prospettive del contesto storico, culturale, politico e scientifico in cui nascono. E che ancora oggi è utile confrontarsi con quei testi, per interrogare il nostro presente, non per ritrovarlo. Un esempio fruttuoso in questo senso potrebbe essere rileggere in parallelo le due idee di potere e le due distopie di Huxley e Orwell. Sono molto diverse, ed entrambe hanno qualcosa da dire sulle inquietudini che caratterizzano il nostro presente.

Alberto SeBastiani e Giuseppe Ciarallo

Alberto SeBastiani e Giuseppe Ciarallo

 Anche le serie tv si stanno interessando alla distopia, ne è un esempio Black Mirror, la serie cult che mostra le tecnologie in modo parossistico e verosimile. Forse si sta cominciando a capire la deriva tecnologica o forse il mondo non ha scampo?

 A.S. : Le derive tecnologiche sono state ampiamente indagate dalla fantascienza, e le distopie hanno preso tante forme dal XX secolo a oggi, ma che il mondo è brutto lo sanno tutti. Il problema è capire come migliorarlo, è quindi forse più utile pensare alle utopie o a percorsi possibili di superamento delle difficoltà, e lavorare per trovare prospettive positive, anche rivoluzionarie. Lo fa anche la fantascienza, che non è solo distopica, e che anche in Italia ha presentato degli autori di grande interesse in questa prospettiva. Nessuna faciloneria o entusiasmo ingenuo, solo l’essenza della fantascienza contemporanea: interrogare il presente, criticarlo, proiettarne le difficoltà individuali e sociali, economiche e politiche nel futuro, o in una dimensione parallela, o in un presente alternativo, giusto per fare qualche esempio. Questa proiezione può raccontare una distopia, ma anche no.

 Consigli letterari e progetti futuri

 G.C. :Come diceva il mitico Corto Maltese: “non sono abbastanza serio per dare consigli e lo sono troppo per riceverne”. A parte le battute, fatte salve le debite eccezioni trovo abbastanza desolante il panorama letterario attuale, troppo influenzato e invaso dal Mercato. Pertanto io personalmente trovo rifugio nei classici e nella saggistica.

 Per quanto riguarda la rivista, abbiamola ferma intenzione di proseguire nel nostro cammino, per Stefano, per i nostri lettori, per noi che la facciamo, per tutti coloro che pensano sia sempre più necessaria una molteplicità di voci fuori dal coro e “in direzione ostinata e contraria”, insomma per i tanti che, citando Bertolt Brecht, da sempre preferiscono sedere dalla parte del torto, visto che i posti dalla parte della ragione sono già tutti occupati.

Intervista a cura di Francesco Basso

 

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